domenica 11 febbraio 2018

La coscienza di Shakespeare (Shakespeare's conscience)


La coscienza di Shakespeare (Shakespeare's conscience)

Vertimento teatrale in un Prologo, quattro Scene e un Epilogo.
Ediz. italiana e inglese (Multilingue) Copertina rigida
di Eduardo Ciampi (Autore)  Editore: Irfan Collana: Al-Qantara  2018  Pagine: 104 Formato: rilegato

In edizione bilingue,l’opera prima teatrale di Eduardo Ciampi, con prefazione di Antonino Anzaldi e postfazione a cura di Anagogia

PREFAZIONE (Antonino Anzaldi)

La Coscienza di Shakespeare, “vertimento teatrale”. Accantoniamo, per ora, Shakespeare e soffermiamoci sulla coscienza, “La facoltà immediata di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera dell'esperienza individuale”. Così il vocabolario. Coscienza, allora, come conoscenza, consapevolezza: dell'ambiente circostante e anche di sé. E un buon mezzo (pur se non il solo) per aver conoscenza di qualche cosa è l'averla vista. Fin dai tempi del ginnasio mi ha affascinato il fatto che, in greco antico, per dire "io so" si usi oida, il perfetto del verbo orao, che vuol dire anche "ho visto", "vidi". Un tempo passato. Ho visto e quindi (per aver veduto) so. Mi balza alla mente che, nella tradizione indù, uno dei libri sacri è quello dei Veda. Veda è sanscrito e viene tradotto "scienza", "dottrina", "sapere sacro"; ma più semplicemente potremmo dire "cose viste" (sulla stessa scia troviamo il latino video); i Veda sono le cose viste dai Rishi (i veggenti-sapienti). Hanno visto e quindi sanno e quindi riferiscono. Certo è che l'esperienza visiva diretta ed immediata di qualcosa che accade davanti ai nostri occhi non è soltanto un conoscere quel qualcosa, ma anche l'acquisizione della consapevolezza di sapere. Ma la conoscenza visiva di me? Vedo, sì, parti del mio corpo. Non dietro, in verità. Né mi vedo la faccia. Sempre che non mi aiuti uno specchio. A mezzo del quale otterrò – va da sé – una conoscenza speculare-speculativa (speculum); lunare-riflessiva (lo specchio, come la Luna, riflette). Ma, osserva Shakespeare: “Vieni, mettiti a sedere qui e non ti muovere; / non te ne andrai, finché non t’avrò messo innanzi uno specchio / in cui potrai vedere riflessa la parte più intima di te” (Amleto, III/4). La parte più intima. Uno specchio, dunque, “soprannaturale, costruito ad arte”. Uno specchio interiore; uno specchio che sia passaggio per l'“oltre”; uno specchio in cui guardare col “terzo occhio”? Sembra ventilarsene la possibilità.

 
Ma ancora il vocabolario sulla coscienza: “Nel linguaggio comune, la valutazione morale del proprio agire, spesso intesa come criterio supremo della moralità”. Cognizione profonda, intima, interiore che “dà forma all'etica, alla condotta di vita, alla disciplina, rendendole autentiche”. Ecco il passaggio dalla conoscenza (autoconoscenza) al “giudizio” morale. E' su questo “giudice” che insiste Shakespeare: “La coscienza…., rende l’uomo codardo. Un uomo non potrebbe nemmeno rubare, senza che lei non l’accusasse immediatamente; né poter bestemmiare, che quella subito penserebbe a trattenerlo, e se volesse andare a letto con la moglie del vicino di casa, la coscienza lo denuncerebbe in un batter d’occhio. La coscienza, te lo dico io, riduce a mendicante chiunque la custodisca, ed infatti viene bandita dai paesi e dalle città come cosa assai perniciosa: e tutti coloro che hanno voglia di vivere bene fanno di tutto per fidarsi soltanto di se stessi e fare a meno di lei” (Riccardo III, I/4). Fastidioso “inquilino” interiore che si vorrebbe sfrattare, dunque, la coscienza-giudice, la cui voce si vorrebbe ignorare (la voce della coscienza, appunto): “E dove sta questa coscienza? Se fosse un gelone mi farebbe almeno portare le pantofole: ma questa divinità, non me la sento nel petto” (La Tempesta, II/1). 

Ma quali le dramatis personae di questo “vertimento teatrale”? La Coscienza sì, ma anche l'Attore. L'attore, colui che agisce. L'attore, “colui che rappresenta o interpreta una parte o un ruolo in uno spettacolo” Una parte e, quindi, non il tutto; tassello, tessera d'un mosaico. Ma agisce e, quindi, fa. E se fa è poeta. Dal greco poieo, faccio. Il poeta è il “facitore” per eccellenza. Modifica la realtà con la parola. Verbum. Co-creatore? A detta del bardo, “La poesia è un dono del cielo, e il suo potere è immenso” (Due gentiluomini di Verona, III/2). E verseggia (magari in maniera non sublime) Carducci: “Il poeta o vulgo sciocco,/ Un pitocco/ Non è già, che a l'altrui mensa/ Via con lazzi turpi e matti/ Porta i piatti/ Ed il pan ruba in dispensa... Il poeta è un grande artiere...”. E l'attore è poeta nel momento in cui dice-recita-emette i suoni-parole d'un testo, così come lo è chi ha ideato il testo medesimo.

Ancora: accenniamo appena, qui, alla religiosità, alla sacralità, alla ritualità del teatro ancor oggi permanente. Se poi diamo per scontato che il teatro è rito, ecco che l'attore è sacerdote, dispensatore di sacro. En passant, ricordiamo che sacro non è necessariamente divino, ma è anche “separato”, “maledetto” (sacer esto era la formula giuridico-religiosa romana con cui avveniva la consecratio d'un reo alle divinità infere). E l'attore, che del “mentire” recitando una parte fa mestiere, per secoli è stato sepolto in terra sconsacrata. Ma non manca Jerzy Grotowski di definire l'attore come un santo, la cui santità è determinata dal rischio, ossia dal suo stare in bilico tra le due sponde del sacro e del profano. E questo essere in bilico, forse, lo fa più ponte, che pontefice (facitore di ponti). Ciò quando “L’uomo pontificale, ovvero colui che è pienamente consapevole del proprio destino di trascendenza, sa bene che la grandezza non è nella sua acuta furbizia o nelle sue titaniche creazioni, ma nell’incredibile potere di sapersi svuotare di se stesso, di cessare in senso iniziatico d’esistere, per poter partecipare a quello stato di povertà spirituale che permetterà di esperire la Realtà Ultima”. Così si dice in questo non “di-vertimento” - allontanamento, scantonamento (da una retta via) - ma “vertimento”, cioè un rivolgersi verso una “giusta” direzione, verso l'alto, in quella che è una “fuoriuscita” (vertimento, in portoghese) dal mondo-luogo comune per raggiungere una dimensione “altra”.

Antonino Anzaldi

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